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martedì 5 agosto 2014

Ecco perchè con l'euro l'austerità non avrà mai fine

La propaganda mediatica ci parla di euro e austerità come se fossero due fenomeni scollegati, l'uno indipendente dall'altro, regalandoci l'illusione che un giorno, in un futuro più o meno prossimo, potremo alzare la voce in Europa e far valere le nostre ragioni, rimanendo nell'euro e convincendo però i nostri cugini tedeschi ad essere più benevoli con noi e concederci un po' di respiro. Questi discorsi hanno la stessa valenza di chiacchiere da bar, e lo sapete perchè? L’euro e le politiche di austerity non solo sono collegati, ma addirittura l'euro implica le politiche di austerità.

Per capirlo, innanzitutto c’è da fare una premessa fondamentale: adottando l'euro i vari Paesi dell'eurozona hanno deciso di passare da un regime a cambi flessibili ad uno a cambi fissi. Quindi quando il Consiglio Europeo nel 1999 determinò i tassi di cambio tra le varie valute nazionali e l'euro, si decise che da quel momento in poi un euro sarebbe valso per sempre 1936,27 lire, 6,55957 franchi, 1,95583 marchi e così via. L'importanza di una tale decisione è ancor più evidente se si tiene a mente che neppure gli accordi di Bretton Woods, in cui si decise di agganciare le varie valute nazionali all'oro, avevano determinato un sistema tanto rigido. 

Ma andiamo a vedere nello specifico cosa ha comportato una scelta tanto azzardata da parte dei nostri governanti. Gli effetti più dirompenti ed immediati sono certamente quelli che hanno riguardato il commercio intra-comunitario, che ha visto mutare radicalmente le proprie dinamiche. Nel precedente regime a cambi flessibili infatti le valute nazionali erano libere di fluttuare sui mercati dei cambi in base ai meccanismi della domanda e dell'offerta, e il venir meno di questa funzione riequilibratrice ha dato vita a notevoli distorsioni negli scambi commerciali all'interno del mercato unico europeo. Cerchiamo di spiegarlo chiaramente: nel sistema delle vecchie valute nazionali, quando un Paese, supponiamo l'Italia, importava merci o servizi da un altro Paese, prima doveva acquistarne la valuta. Quindi, se volevamo importare BMW tedesche, prima dovevamo procurarci dei marchi tedeschi e solo successivamente potevamo acquistare le nostre automobili (ovviamente il consumatore finale neppure si accorgeva di questo passaggio, ma a livello macroeconomico è così che funzionava). All'interno di un regime a cambi flessibili, se i beni o servizi di un determinato Paese, continuiamo a supporre la Germania, erano molto richiesti dall'estero, allora anche la sua moneta era molto richiesta. E siccome il meccanismo della domanda e dell'offerta imponeva che al crescere della domanda il prezzo aumentasse, il marco tedesco si rivalutava. Il discorso opposto vale per le svalutazioni: quando i prodotti di un Paese erano poco richiesti all'estero, allora anche la sua moneta era scarsamente domandata, e quindi si deprezzava, svalutandosi. Cos'è cambiato con l'euro, e quindi con i cambi fissi? E' cambiato che il mercato non è più libero di svolgere la sua funzione riequilibratrice, quindi se i prodotti di un dato Paese oggi sono molto richiesti, la valuta di questo Paese non si rivaluterà; se sono scarsamente domandati, la sua valuta non si svaluterà (il che fa sorridere, se si considera che di solito chi difende l'euro si dichiara anche un sostenitore a spada tratta del libero mercato). 

Un ulteriore ed altrettanto importante effetto scaturito dall'introduzione dell'euro riguarda poi il mercato dei capitali. Nel precedente regime a cambi flessibili gli investitori esteri, prima di decidere dove investire il proprio denaro, dovevano considerare molto attentamente il rischio di cambio. Questo rischio, in poche parole, si riferisce alla possibilità che la svalutazione di una valuta determini una perdita del potere d'acquisto della moneta stessa e quindi, per i creditori esteri, una perdita di valore dei propri crediti. E' evidente che in un regime a cambi fissi tale rischio è del tutto annullato e quindi la concessione di crediti da parte di istituti finanziari esteri è agevolata a dismisura, fino a sfociare nell'erogazione indiscriminata di prestiti a chicchessia, ma su questo punto ci torneremo più avanti. Ciò che è importante capire adesso è che mentre prima, in un regime a cambi flessibili, gli investitori esteri dovevano pensarci due volte prima di concedere prestiti a Paesi che tendevano a veder svalutata spesso la propria moneta, ora questo incentivo a controllare le qualità del debitore è venuto meno.

Proviamo ad unire i puntini. Abbiamo che l'euro, in un colpo solo, ha determinato sia il venir meno del meccanismo riequilibratore degli squilibri commerciali, sia il venir meno del rischio di cambio. Ma quali sono le conseguenze di tutto ciò?

Procediamo con ordine, partendo dagli squilibri commerciali. E' evidente che, grazie a questo regime a cambi fissi, ad aver tratto tutti i vantaggi dall'euro sono le economie che, per l'appunto, partivano avvantaggiate. Queste infatti hanno potuto letteralmente inondare le economie meno sviluppate, che non più protette né da dazi né dal mercato dei cambi sono state condannate a morte. Se l'Unione Europea non ci fosse stata presentata come una comunità di popoli che punta ad una crescita armoniosa ed equilibrata, potremmo dire che è giusto così, che il migliore prevale. Il problema è che invece tutte queste belle parole sono scritte anche nei Trattati, e quindi andrebbero rispettate. A questo va aggiunto poi che il Paese che in questa vera e propria guerra commerciale è riuscito a imporsi su tutti gli altri, ovvero la Germania, lo ha fatto non solo in barba al principio di cooperazione europea, ma addirittura trasgredendo a quelle stesse regole di bilancio a cui ora odiosamente vincola tutti i Paesi "sconfitti". Il vero segreto della competitività tedesca infatti sono state le riforme Hartz, che dal 2003 hanno reso il mercato del lavoro tedesco il più precario e meno tutelato d'Europa. Abolizione del minimo salariale e creazione di contratti atipici, chiamati minijobs, che prevedono una retribuzione massima di 400 euro, sono solo alcune delle novità introdotte dalla riforma del lavoro tedesca, che vi invitiamo ad approfondire in questo articolo del Giornale dell'Università di Padova. Ma evidentemente i costi sociali di una tale manovra non potevano che essere ingenti, ed è per questo che la Germania, proprio a partire dal 2002, fu il primo Paese a trasgredire agli accordi di Maastricht portando il proprio rapporto debito pubblico/Pil  dal 58,83% del 2001 al 76,52% del 2011 (qui i dati) e superando per ben 4 anni di fila, dal 2002 al 2005, il limite del 3% di deficit pubblico (qui i dettagli). In pratica i tedeschi hanno finanziato la propria politica mercantilista, di per sè illegittima in quanto non cooperativa, tramite un aumento di spesa pubblica tale da venire costantemente meno alle regole di Maastricht (come ci spiega più approfonditamente anche questo articolo del Fatto Quotidiano).

Ma come già detto, lo strapotere commerciale tedesco non è l'unico effetto artificialmente prodotto dall'introduzione dell'euro. C'è anche l'abolizione del rischio di cambio. Questo ha fatto sì che mentre la Germania aumentava le proprie esportazioni arricchendosi e il resto d'Europa aumentava le proprie importazioni impoverendosi, le banche nordiche, e in primis tedesche, hanno potuto finanziare senza troppi patemi d'animo i cosiddetti PIGS affinchè questi potessero continuare ad acquistare i sempre più convenienti prodotti tedeschi. Questo spiega l'esplosione del debito estero, sia pubblico che privato (ma soprattutto privato), che ha caratterizzato tutti i PIGS negli anni subito precedenti alla crisi del 2007. Come potete vedere dal seguente grafico preso in prestito dal blog del professore di Politica Economica Alberto Bagnai, all'aumentare del differenziale di prezzo tra i prodotti tedeschi (più convenienti) e i prodotti dei PIGS (meno convenienti), l'indebitamento estero di questi ultimi è aumentato di conseguenza:


Ricapitolando: l'euro ci ha trascinati da un sistema a cambi flessibili ad uno a cambi fissi, che, non prevedendo alcuna flessibilità, ha fatto sì che il Paese che per precise politiche salariali altamente scorrette era diventato il più competitivo sui mercati continentali, la Germania, potesse imporsi su tutti gli altri senza incontrare alcuna resistenza. Nel contempo, sempre il regime di cambi fissi a cui ha dato vita l'euro, ha fatto venir meno il rischio di cambio e quindi causato l'esplosione del debito estero in tutti i PIGS.

Adesso starete pensando: "va bene, ma che c'entra tutto questo con l'austerity?" C'entra, eccome se c'entra. Per venir fuori da una simile situazione, ora i PIGS sono costretti a ridurre le importazioni e contemporaneamente a ridurre il proprio indebitamento estero. E indovinate un po': l'austerità serve proprio per questi due motivi, altro che ridurre il rapporto debito pubblico/PIL. Anzi, se con l'austerity montiana suddetto rapporto è addirittura aumentanto (ecco i dati) non è certo un caso: è del tutto evidente che le politiche di austerità, caratterizzate da maggior pressione fiscale e minor spesa pubblica, oltre ad avere dubbi effetti sulla riduzione del debito, hanno l'indubbio risultato di distruggere il PIL, denominatore del rapporto. Una volta assodato che da questo punto di vista l'austerità fa solamente danni, andiamo allora a vedere perchè da Monti a Renzi, passando per Letta, nessun governo italiano può farne a meno. La questione è che non potendo più agire direttamente sulla bilancia commerciale disincentivando le importazioni  (per esempio con l'applicazione di dazi commerciali), né sulla libera circolazione dei capitali disincentivando l'indebitamento estero (che ricordiamo: in massima parte è privato), il governo può agire solo in due modi per ridurre importazioni e indebitamento estero: il primo è quello di lanciarsi in un'affannosa rincorsa alla famosa competitività tedesca precarizzando e deregolamentando a più non posso il mercato del lavoro (vedi Jobs Act, di cui abbiamo già parlato qui); il secondo è quello di stroncare i consumi e la domanda interna, aumentando la pressione fiscale e tagliando la spesa pubblica con la nostra cara austerità (grazie alla quale si ottiene anche il risultato di ripagare i debiti esteri accumulati verso i creditori del nord).

Va da sè che gli effetti collaterali di tali politiche sono devastanti. Precarizzare e deregolamentare il mercato del lavoro porta innanzitutto insicurezza e ingiustizia sociale. Ma oltre a questo, una tale politica non riuscirebbe mai a risolvere la questione competitività, anzi, la renderebbe un problema strutturale, un tormentone di cui diventerà impossibile liberarsi dato che di fatto scatenerebbe  una competizione al ribasso tra i vari Paesi dell'eurozona, in cui questi saranno costantemente impegnati nel fare a gara a chi distrugge di più i salari. Aumentare la pressione fiscale e tagliare la spesa pubblica (ricordiamo che la spesa pubblica non consiste nel bruciare soldi, ma nel trasferirli a soggetti privati sotto forma di stipendi, pensioni, incentivi, aiuti, ecc...) invece equivale ad un impoverimento programmato del popolo e alla distruzione della piccola e media impresa italiana, che è la vera linfa vitale della nostra economia ed è ormai sull'orlo del baratro. Chiaramente, inoltre, gli esiti delle due politiche vanno sommati, dato che attuate congiuntamente, e il risultato è ancor più drammatico.

Ma la cosa più inquietante, in tutto ciò, è che il governo continua costantemente a mentirci in modo spudorato. Ci dicono che è tutta colpa di sprechi e clientelismi, che dobbiamo ridurre il debito pubblico, e poi arriva Monti che con la sua manovra "lacrime e sangue" ottiene il solo risultato, salvo reprimere i consumi, precarizzare i lavoratori e racimolare soldi da restituire ai creditori esteri, di incrementare ulteriormente il debito pubblico stesso. Per giunta, il tecnico inviato direttamente da Bruxelles per riaggiustare i conti pubblici della nostra Italia, manco fosse una caldaia rotta, non è andato affatto a racimolare i 30 miliardi tagliando sprechi e inefficienze varie, ma per l'85% lo ha fatto attingendo a nuove tasse (guarda un po') e per il restante 15% tagliando spesa pubblica tutt'altro che supeflua (basti pensare alla tragedia degli esodati). Perchè non ci dicono apertamente che il problema è che ci stiamo indebitando troppo con l'estero e che quindi hanno deciso di ridurci alla fame per impedircelo? Perchè continuano a tranquillizzarci quando sanno benissimo che se l'architettura dell'euro non cambia radicalmente saremo costretti all'annichilimento economico-produttivo, peraltro già in atto? Ma soprattutto: quando è successo che tutti i massimi vertici dello Stato hanno deciso di tradire il proprio Paese, il loro mandato popolare e costituzionale, pur di tutelare dei meri interessi economici esteri, tra l'altro illegittimi? Lasciamo a voi le risposte a tutte queste domande. Sta di fatto che se fino a ieri vivevamo in una Repubblica democratica fondata sul lavoro, oggi grazie all'euro viviamo in una dittatura economica fondata sull'austerity.

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